Dalle relazioni sociali all’organizzazione del lavoro, dalla fruizione degli spazi urbani all’acquisto e consumo. Le piattaforme digitali hanno ormai colonizzato qualsiasi aspetto della nostra vita: con un semplice click abbiamo a portata di mano sempre più servizi, anche se spesso senza molta chiarezza sulle condizioni di uso dei dati prodotti o sulle condizioni dei lavoratori. Il progetto europeo PLUS – Platform Labour in Urban Spaces, di cui l’Università di Bologna è capofila, indaga l’impatto di quattro piattaforme (Airbnb, Deliveroo, Helpling, Uber) sulla vita di sette città europee: Barcellona, Berlino, Bologna, Lisbona, Londra, Parigi e Tallinn.
Per tre anni, un team internazionale di ricerca ha testato problematicità e potenzialità delle piattaforme, studiando le diverse pratiche di regolamentazione in corso, dalle iniziative locali fino ai processi legislativi europei. Giovedì 2 dicembre, in occasione del convegno “La platform economy cambia le città: gli impatti su lavoro, ambiente urbano e società”, sono stati diffusi i primi risultati: 4 panel tematici all’interno dei quali ricercatrici e ricercatori del progetto hanno dialogato con esperti e attori del territorio.
Con un’accelerazione dovuta alla pandemia, le città sono state radicalmente trasformate dall’espansione rapida e capillare di queste imprese digitali che mettono a valore alcuni aspetti della vita urbana mentre, allo stesso tempo, si contraddistinguono per una loro forte immaterialità. Il potere da loro acquisito ha aperto il dibattito rispetto alla necessità di regolamentarne l’operato, coinvolgendo lavoratori e cittadinanza, sindacati, amministratori locali, legislatori europei.
Le piattaforme come un modello di cooptazione
Le piattaforme sono state studiate prima come nuovi mercati, poi come gerarchie, infine come reti. Ivana Pais dell’Università Cattolica di Milano propone invece un nuovo modello rispetto a questi primi tre. “Consideriamo le piattaforme come cooptazione: le persone entrano a far parte della piattaforma senza essere dipendenti gerarchicamente, ed esiste anche un nuovo modello di management, il cosiddetto management algoritmico. Non ci sono regole burocratiche, e anche il monitoraggio è solo in parte disciplinare. Le figure del manager sono cambiate: nelle piattaforme sono sempre meno, e hanno poco potere, poche informazioni, un ruolo molto limitato. Questa redistribuzione del potere modifica le classi sociali e crea nuove alleanze, che vede alleati i proprietari delle piattaforme, gli investitori e i clienti. È il lavoratore che viene schiacciato”.
Il lavoro nell’economia di piattaforma
Com’è cambiato il lavoro ai tempi delle piattaforme? Le piattaforme si innestano su processi di medio periodo, che hanno messo in discussione il rapporto di lavoro tradizionale: quello a tempo indeterminato, che dura tutta la vita e che garantisce una serie di diritti attraverso il contratto di lavoro.
Nel complesso, il lavoro di piattaforma è caratterizzato invece dall’alto tasso di fluttuazione, oltre che da problemi di regolazione. Le piattaforme digitali fondano le proprie attività su un bacino di lavoro che non è mai definito in modo preciso, con la possibilità di attingere potenzialmente a una forza lavoro che sta a metà tra gli occupati e i disoccupati.
Il lavoro di piattaforma è anche caratterizzato da una natura fortemente cooperativa, data la dimensione collettiva del lavoro. Si tratta di un lavoro immerso in reti di cooperazione, senza le quali non ci sarebbe accumulazione del capitale investito. Eppure, questa accumulazione sfugge completamente al singolo lavoratore.
“Il tema del lavoro nell’economia di piattaforma è centrale per il mondo cooperativo”, spiega Piero Ingrosso, vicepresidente di AlmaVicoo, il centro universitario per la formazione e la promozione dell’impresa cooperativa fondato da Legacoop Bologna e Università di Bologna. “La cooperazione nasce come piattaforma, un modello di impresa che aggrega i bisogni e offre soluzioni.”
“In questo momento c’è grande interesse, anche sul piano internazionale, verso i modelli di platform cooperativism”, continua Ingrosso. “Per questo motivo abbiamo dato vita a Vicoo Platform, il primo programma di accelerazione di comunità dedicato alle piattaforme digitali cooperative. L’obiettivo è quello di sperimentare prototipi di piattaforme in grado di rispondere in maniera puntuale ai bisogni delle comunità del territorio. La caratteristica principale del programma Vicoo Platform è quello di coinvolgere gli stakeholder del territorio in tutte le fasi di accelerazione delle piattaforme, in modo da prevenire distorsioni sociali, garantire i diritti dei lavoratori e tutelare i dati degli utenti. Per raggiungere questi obiettivi diventa fondamentale il ruolo della governance cooperativa su cui fondare nuovi modelli di mutualismo digitale.
I risultati del progetto Plus
Per analizzare l’impatto dei processi di digitalizzazione sul lavoro e anche l’impatto della pandemia dell’uso delle piattaforme, il team del progetto europeo Plus ha studiato 4 piattaforme (Airbnb, Deliveroo, Helpling, Uber) in sette città europee: Barcellona, Berlino, Bologna, Lisbona, Londra, Parigi e Tallinn. Tra novembre 2019 e ottobre 2020 sono state svolte 229 interviste e sette focus group.
I risultati mostrano come la pandemia abbia fatto emergere la precarietà dei lavoratori, esposti al rischio di contagio e alla perdita del proprio reddito. Parallelamente, il processo di infrastrutturazione delle piattaforme si è consolidato: durante il lockdown, tutto passava attraverso le piattaforme. “Chi lavora nelle piattaforme è trattato come un lavoratore autonomo: cottimo, assenza di protezione sociale, malattia, infortunio, disoccupazione”, racconta Marco Marrone dell’Università di Bologna, autore del saggio Rights Against the Machines!. Il lavoro digitale e le lotte dei rider. “Tutte le piattaforme che abbiamo analizzato presentano un management algoritmico: parliamo di tracking, rating, ranking, data extraction, che premia chi presta lavoro con continuità e tende a espellere i discontinui. Gli intervistati non mostrano alcuna platform worker identity, non si sentono parte di un tutto”.
Il basso livello di skills richieste facilita l’entrata di lavoratori solitamente marginali, come i migranti o i giovani. Comunque, esiste un livello di skills informali che facilitano il lavoro nelle piattaforme: la confidenza con strumenti come lo smartphone o la bicicletta, la conoscenza della città, le capacità relazionali, la flessibilità. Queste skills giocano un ruolo determinante nel definire le gerarchie all’interno della piattaforma. “Nonostante la frammentazione, comunque ci sono molte organizzazioni di natura mutualistica e sindacale, per difendere i diritti dei lavoratori delle piattaforme”, conclude Marrone. “Eppure, al momento ancora non si è trovata la chiave per fare leva sui proprietari e migliorare le condizioni di lavoro”.
Quale società sta emergendo dalla rivoluzione digitale?
La pandemia ha quindi determinato una crisi di mobilità e le piattaforme si sono proposte come dispositivi capaci di gestire questa crisi. “In questo momento sentiamo parlare di ‘fine della globalizzazione’, ma non è così: se è vero che stiamo assistendo a una crisi della mobilità – pensiamo alla supply chain disruption –, dall’altro lato i dispositivi per affrontare questa crisi sono dispositivi globali”, spiega Sandro Mezzadra professore dell’Università di Bologna e responsabile del progetto Plus. “Teniamo presente la rapidità con cui le piattaforme si sono diffuse a livello mondiale: il taylorismo ha impiegato quasi un secolo a globalizzarsi, le piattaforme hanno impiegato pochi anni. Questo non significa che le piattaforme siano uguali dappertutto: c’è una dialettica tra omogeneità e eterogeneità”.
Le piattaforme sono all’origine di un insieme di processi che trasformano la politica, l’economia, la società. “C’è una parola che riassume tutto questo: piattaformizzazione”, continua Mezzadra. “Le piattaforme tendono a porsi come infrastrutture: producono le strutture sociali in cui viviamo. C’è un rapporto fondamentale tra infrastruttura e potere: predisponendo le strutture che consentono l’organizzazione della vita associata, le piattaforme (che sono soggetti privati) hanno effetti direttamente politici (quindi nella sfera pubblica). Ricordiamo ad esempio lo scandalo di Cambridge analytica, dove le piattaforme intervengono dall’esterno distorcendo i processi politici”.
Le piattaforme, un nuovo paradigma tecnologico
Un dibattito che sta sorgendo tra gli economisti dell’innovazione riguarda le piattaforme come eventuale indicatore del sorgere di un nuovo paradigma tecnologico. “La tecnologia va avanti in un processo che procede a strappi e a salti, dove esistono momenti di cambiamento strutturale in cui si racchiude un cluster di innovazioni radicali”, spiega Andrea Fumagalli dell’Università di Pavia, presidente BIN Italia – Basic Income Network. “La questione è: la piattaformizzazione è un nuovo paradigma tecnologico? Guardiamo agli ambiti coinvolti: si tratta di un processo che riguarda il lavoro, la produzione, la finanza, la configurazione geopolitica, e di fatto l’organizzazione della vita di tutti noi. È un fenomeno globale, ma coinvolge i mercati nazionali. Per questo, si può parlare di nuovo paradigma tecnologico”.
Rispetto al rapporto tra piattaformizzazione e finanza, negli ultimi anni abbiamo assistito da un lato alla finanziarizzazione delle piattaforme, che vengono quotate in borsa, dall’altro alla “piattaformizzazione della finanza”, ossia a nuovi modelli come il microcredito, che permette di democratizzare la finanza e ampliare gli attori in campo. “Il vero nodo problematico è il welfare”, afferma Fumagalli. “Che tipo di sicurezza sociale e di welfare ci può essere in un’economia piattaformizzata? Le piattaforme non nutrono lo stato sociale (a differenza dei contratti tradizionali), perché non pagano le tasse. Serve un intervento dal punto di vista fiscale a livello globale”.