“Negli ultimi anni sempre più spesso, negli ambiti più diversi, abbiamo sentito parlare di piattaforme. Dalle relazioni sociali all’e-commerce, dagli affitti brevi al trasporto urbano, dall’industria alle consegne a domicilio, le piattaforme sembrano diffondersi ovunque. Questo fenomeno ha suscitato intense discussioni sull’impatto che vi sarebbe stato per il lavoro, le città, la politica, la privacy, l’informazione. E la forte accelerazione che la pandemia ha impresso ai processi di digitalizzazione non può non rendere ancora più urgenti questi dibattiti”.

Così Giacomo Bottos, direttore della Rivista Pandora, apre l’ultimo numero dedicato al tema delle piattaforme – realizzato in collaborazione con Legacoop Bologna e AlmaVicoo e grazie al contributo di Coopfond – presentato on line in occasione dei Dialoghi di Pandora Rivista venerdì 19 febbraio. L’obiettivo? Discutere prospettive, potenzialità e problemi delle piattaforme tecnologiche e le future tendenze dei processi di digitalizzazione. Che ruolo ha l’Italia in queste nuove sfide? E in particolare Bologna e l’Emilia-Romagna in che modo diventeranno un punto di snodo di supercalcolo per l’Europa e centro di ricerca e innovazione sui processi di digitalizzazione?
A parlarne il neoministro dell’istruzione Patrizio Bianchi, la presidente di Legacoop Bologna Rita Ghedini, il professore di sociologia della cultura e della comunicazione Luciano Floridi, la professoressa di diritto privato e diritto di internet e presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna Giusella Finocchiaro, e l’assessore allo sviluppo economico e green economy, lavoro e formazione della Regione Emilia-Romagna Vincenzo Colla.
“La piattaforma non è solo uno strumento tecnologico, ma anche una forma organizzativa, che negli ultimi dieci anni ha conosciuto una diffusione in ambiti diversi”, spiega Giacomo Bottos. “Si tratta di una trasformazione molto profonda a cui i nostri sistemi economici stanno andando incontro: c’è una relazione profonda tra il cambiamento tecnologico e una nuova conformazione della globalizzazione, a cui stanno andando incontro i nostri sistemi produttivi”.
Piattaforme, etica, educazione

“Pandora pone un problema importante: quello dell’etica connessa con l’intelligenza artificiale e con l’economia delle piattaforme”, afferma il neoministro dell’istruzione Patrizio Bianchi. “Il ruolo di Pandora, come quello di altre riviste di cultura, è estremamente importante: dobbiamo diffondere un nuovo tipo di educazione, l’educazione alla vita collettiva, che significa anche attrezzare i nostri ragazzi a riflettere su questi temi. I giovani conoscono gli strumenti digitali meglio di noi: dobbiamo dare loro una capacità critica, per usare le tecnologie senza essere usati dalle tecnologie. In questo processo, la città di Bologna ha un ruolo centrale: storicamente raccoglie le capacità di supercalcolo del nostro Paese, e ora anche europee. Si tratta di un’infrastruttura di sistema per tutta Italia: dobbiamo rendercene conto e capire come utilizzarla al meglio, per lo sviluppo della nostra economia.
Un’intermediazione disintermediante
La piattaforma è dunque uno spazio nel quale avvengono interazioni e scambi. Quanto è neutro? E quale ruolo ha, in tutto ciò, la gestione e l’estrazione dei dati degli utenti? “Per prima cosa, le piattaforme sono uno spazio. Questo significa che noi abitiamo queste piattaforme, ci viviamo dentro: la televisione, la radio, i giornali non sono piattaforme, io non vivo sul Corriere della Sera o su Rai1, ma vivo su Facebook e su Amazon.‘ Sono due cose molto diverse”, spiega il professor Luciano Floridi, già docente di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, che da poco ha preso la cattedra di sociologia della cultura e della comunicazione all’Università di Bologna, dove dirigerà lo European Lab for Digital Ethics and Governance.

“Elemento numero due: spesso si dice che le piattaforme sono uno spazio disintermediato, il che significa che le persone interagiscono senza intermediari. Ma veramente non esiste alcun tipo di intermediazione?”, continua Floridi. “Trattandosi di uno spazio, sono le piattaforme stesse ad essere le nuove intermediazioni. Questa ‘intermediazione disintermediante’ dev’essere davanti agli occhi di tutti, altrimenti ci illudiamo che finalmente siamo in un mondo dove non c’è più frizione. Non è così. Infine, si parla spesso delle piattaforme come ‘piatte’, senza una stratificazione, ma in realtà non è così: chi gestisce il cloud computing, che è una piattaforma, poi determina anche chi su questo cloud computing ci può stare o non ci può stare. Quando negli Stati Uniti hanno deciso di staccare la spina a Parler, una piattaforma, chi lo ha fatto? Altre piattaforme, come Amazon. Allora, non è vero che le piattaforme sono un semplice canale di comunicazione: sono degli spazi. Non è vero che fanno una semplice disintermediazione: sono delle nuove mediazioni. E non è vero che sono uno spazio unidimensionale: in realtà è stratificato e ci sono piattaforme delle piattaforme”.
Secondo il professor Floridi, la neutralità ormai appartiene a un vocabolario anni ’90. “Pensare che le piattaforme siano neutrali, monodimensionali, vuol dire non aver capito niente. Come le controlliamo quindi? La piattaforma è uno spazio sociale, che va regolamentato come tale. L’autoregolamentazione non basta più”.
Che tipo di regolamentazione?

Il tema della regolazione emerge chiaramente: le piattaforme, da quando sono nate, portano continui problemi in termini di elaborazione del diritto. Ma chi è che detta le regole? E soprattutto: quali regole? “Si tratta di una domanda antica, che ci si è posti dall’inizio della diffusione di internet”, afferma Giusella Finocchiaro, professoressa di diritto privato e diritto di internet e presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. “Questo problema è uscito con evidenza nel caso Trump, quando Twitter ha oscurato il suo profilo. È risultato evidente allora che la piattaforma non è uno spazio neutro, e non è neanche uno spazio senza regole. Tutt’altro: quello tra Twitter e Trump era un un rapporto privatistico tra privati, questa è la dimensione tecnico-giuridica di quel contratto”.
Eppure, il fatto che ci siano molte regole non significa che ci si sia adeguati a livello giuridico: il contratto è lo strumento adeguato per regolare quello? “Probabilmente no, perché la tecnica giuridica non corrisponde allo spazio, che è uno spazio con rilevanza pubblicistica”, commenta Finocchiaro. “Se quando si parla delle piattaforme si parla di tendenziale non responsabilità del provider, non è un caso: è frutto di una determinata scelta economica, politica, strategica. Le norme che usiamo in un determinato contesto costituiscono delle scelte politiche precise”.
Le cooperative: un tipo particolare di piattaforma

In questo contesto, non tutte le piattaforme sono uguali: esistono piattaforme estrattive e piattaforme che invece si mettono a disposizione della comunità. “Anche le cooperative sono un tipo particolare di piattaforma, che tra l’altro compensa i lati negativi delle piattaforme classiche”, commenta Rita Ghedini, presidente di Legacoop Bologna. “Da un lato la forma cooperativa ha in sé degli elementi che corrispondono alle ragioni per cui sono nate le piattaforme: necessità di mutualizzare i bisogni, mettere insieme gli interessi di vari soggetti, e dar loro la miglior risposta possibile alle migliori condizioni economiche. Ben 150 anni fa, quindi, le cooperative sono nate per le stesse finalità. La differenza sta nell’intermediare l’interesse dei soci mutualizzandolo, condividendo la proprietà dei cosiddetti ‘mezzi di produzione’, come accessibilità e disponibilità dei dati, ma anche la conoscenza necessaria per renderli accessibili. Invece nelle piattaforme estrattive c’è un’assoluta dismetria tra le piattaforme stesse, oggi diventate grandi monopoli economici, e gli utenti”.
La forma cooperativa, dunque, può e deve cimentarsi in questa sfida, mantenendo però intatta la propria struttura rispetto ai suoi principi fondamentali, per produrre un cambiamento del modello dell’economia digitale. Come farlo? “Perché questo processo abbia successo bisogna riuscire a rispettare alcune condizioni specifiche”, continua Ghedini. “Una è l’accessibilità tecnologica, il diritto alla connessione, l’azione sulla proprietà delle reti e sulle loro condizioni d’uso. La seconda è l’accessibilità della conoscenza: c’è una quota enorme di persone che non ha le conoscenze tecniche di base per accedere al digitale. La terza, infine, ed la più complessa, è quella della proprietà dei dati e del loro utilizzo per finalità utili agli utenti e alle comunità territoriali. C’è un processo da compiere: bisogna immaginare una nuova idea di territorio, in cui gli spazi delle piattaforme possano essere usati per produrre vantaggi alle comunità territoriali fisicamente insediate”.
Il Tecnopolo, quando le piattaforme arricchiscono i territori

Rispetto alle piattaforme, il caso di Bologna risulta oggi particolarmente interessante. È proprio nel capoluogo emiliano infatti che sorgerà il Tecnopolo, destinato ad ospitare la nuova sede del Data center del Centro meteo europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (ECMWF), un centro di ricerca di importanza nazionale ma anche europea. Quale può essere allora il rapporto che si instaura tra queste infrastrutture e il tessuto produttivo del territorio? E che cultura va messa in campo perché questo processo tenga insieme anche elementi sociali e di transizione ecologica?
“Noi vogliamo essere una Regione che non si spaventa della digitalizzazione, ma vuole esserne all’altezza e imparare a governarla”, afferma l’assessore allo sviluppo economico e green economy, lavoro e formazione della Regione Emilia-Romagna, Vincenzo Colla. “Cambiare il governo della tecnologia significa cambiare il modello di sviluppo, con un’attenzione specifica all’ambiente e al sociale, ma soprattutto conoscere quella tecnologia e capire come domarla. Con il Tecnopolo, Bologna fa ingresso in una sfida di portata mondiale: arriveranno 2.500 persone da tutte le parti del mondo, per popolare una cittadella della scienza che cambierà il volto stesso della città e del Paese intero, in grado di attrarre investimenti da tutto il mondo”.
L’Emilia-Romagna come fucina dell’innovazione, dunque, ma sempre con un occhio attento all’impatto sociale umano, e ambientale. “Se c’è un patrimonio da salvaguardare in questa Regione è questa sua capacità di cooperare, questa sua lunga storia di umanesimo, che è anche una forza attrattiva per gli investimenti”, conclude Colla. “Questa tecnologia è splendida ed è mondialista, proprio come l’aria, utilizzata da miliardi di persone. Il problema è che ci ha spiazzato e che ci ha trovati impreparati: ha provocato concentrazione di ricchezza e problemi di democrazia. Ma quando saremo in grado di governarla, sarà in grado di dare soluzioni incredibili rispetto al passato. Abbiamo bisogno di più tecnologia, e di farla diventare di popolo”.