Qual è l’influenza degli algoritmi sulle nostre vite? Fino a dove si spingono le frontiere del potere digitale? E come la cooperazione può creare modelli alternativi di digitalizzazione? A queste e tante altre domande hanno cercato di trovare risposta gli ospiti del Pandora Rivista Festival, realizzato grazie al supporto di Legacoop Bologna e con la media-partnership di Vicoo-Visioni Cooperative, che sabato pomeriggio si sono confrontati negli incontri “Algoritmi e democrazia: le frontiere del potere digitale” e “Algoritmi, democrazia e cooperazione: modelli alternativi di digitalizzazione”.
Il Pandora Rivista Festival
Quest’anno si è svolta la prima edizione del Pandora Rivista Festival – Dialoghi tra generazioni, dall’8 al 13 ottobre a Bologna. L’evento, dal titolo “Tracciare la rotta. Sfera pubblica e cittadini in tempo di crisi”, ha visto accademici, giornalisti ed esperti confrontarsi su temi come democrazia, globalizzazione, digitalizzazione, nuove generazioni e cambiamenti nei media. Il festival non ha solo affrontato il tema della nuova sfera pubblica, ma ha cercato anche di sperimentarla attivamente, mettendo in atto nuove forme di partecipazione culturale.
Algoritmi e democrazia: le frontiere del potere digitale
Il nuovo spazio digitale in cui siamo immersi ha una caratteristica fondamentale: la disintermediazione. L’utente non è più solo fruitore di informazione, ma anche produttore di contenuti. Ecco allora che i grandi intermediari che nel Novecento avevano un forte peso, ovvero i partiti politici e la stampa, hanno in parte perso il loro ruolo. Chi li ha sostituiti? Quali sono i nuovi flussi di potere che impattano in modo rilevante le democrazie di oggi?
La neo-intermediazione
“Il primo è Google, che oggi è quasi un monopolista, ma ci sono anche i social network”, spiega Gabriele Giacomini, ricercatore dell’Università di Udine e autore del saggio Potere digitale: come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia (Meltemi Editore, 2018). “Gli utenti della rete hanno l’impressione di poter dire la loro e raggiungere un pubblico potenzialmente mondiale, ma in realtà la visibilità di ciascuno è influenzata da algoritmi sconosciuti, che nessuno può controllare. E che non sono mai neutrali. Coi social media è più facile comunicare, ma è anche molto più difficile farsi ascoltare: il pavimento si è sollevato un po’, ma il soffitto si è alzato infinitamente. Come limitare allora queste nuove egemonie? Con il ritorno della politica: una politica che deve rendersi conto di quali sono i nuovi poteri economici, e far sì che essi garantiscano una sfera pubblica plurale e aperta”.
Le echo chambers e il backfire effect
In uno spazio iperconnesso come quello digitale, con una produzione continua ed elevata di dati, gli algoritmi nascono proprio per aiutarci a selezionare le informazioni che potrebbero interessarci: le piattaforme ci fanno vedere quello che pensano che noi stiamo cercando. Questo comporta però una polarizzazione della sfera pubblica, dove i cittadini sono chiusi nella loro echo chamber, una bolla in cui circolano informazioni coerenti con quello che pensano, dove stanno persone che hanno lo stesso sistema di valori.
“Sul web, non entriamo spesso in contatto con persone che la pensano diversamente, o con notizie che vanno contro a quello che pensiamo già”, afferma Fabiana Zollo, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari. “E chi prova a ‘sfondare’ la bolla, spesso finisce per rafforzarla. L’esempio classico è quello di chi tenta di correggere notizie poco accurate portando dati e ricerche scientifiche. Quello che si ottiene è il backfire effect, che avviene quando le nuove informazioni, invece di cambiare le nostre errate convinzioni, hanno l’effetto di renderle ancor più granitiche. Secondo i nostri studi, più le persone sono attive sulle piattaforme, più la loro esposizione sarà selettiva: il pluralismo effettivo è molto basso”.
Politica e digitalizzazione
Fin dai primi anni, la digitalizzazione ha portato grosse conseguenze sulla politica: dagli effetti sul mercato del lavoro alla sfera della privacy, dai cambiamenti dei meccanismi dell’attenzione e del modo di apprendere alle influenze degli algoritmi sulle informazioni a cui abbiamo accesso. “Diversi anni fa, chi denunciava i rischi della digitalizzazione veniva accusato di remare contro al futuro”, ricorda Massimo Gaggi, giornalista del Corriere della Sera e autore del saggio Homo premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza, 2018).
“Questa visione è cambiata pochi anni fa, prima con l’elezione di Trump e il Russia gate e poi con lo scandalo di Cambridge analytica. Oggi iniziamo a vedere i primi segnali correttivi: Google parla di ‘religione della privacy’, mentre prima di urlava a gran voce che ‘la privacy è morta’. E la classe politica sta cercando di anticipare i problemi legati alla digitalizzazione. Ma ancora due nodi restano irrisolti: primo, il modello di business di queste aziende non è cambiato e si basa ancora sullo sfruttamento dei dati personali degli utenti e sull’uso commerciale delle informazioni. Secondo, non esiste una regolamentazione efficacie dell’operato dei colossi del digitale. Uno spiraglio di luce viene dall’Europa, più che dagli Stati Uniti”.
Ma il vero problema è la Cina, che sta andando sempre più avanti nella ricerca sull’intelligenza artificiale e sul machine learning. “Il governo cinese non ha nessun limite etico nell’acquisizione dei dati personali dei cittadini, che ne producono tantissimi perché pagano tutto con lo smartphone. Lì vige un sistema di sorveglianza e controllo sociale molto stretto, vicino a uno stato di polizia, con la creazione di un rating dei cittadini a seconda del loro operato nella società”.
Il lato oscuro della gig economy
All’interno dell’ecosistema digitale, uno spazio importante è stato ritagliato dalla sharing economy, che nasce con l’obiettivo di aiutare persone in difficoltà economica ad arrotondare lo stipendio. “Quello della sharing economy è un inganno semantico”, spiega Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica e autore del saggio Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (Einaudi, 2018). “L’idea di un’economia condivisa porta con sé un assunto: a tutti piace, perché solo gli egoisti sono contrari alla condivisione. Il problema è che quella della condivisione non è altro che un’illusione: dietro a questa parola si nasconde un’assenza di tutele per il lavoratore e modalità di lavoro molto antiche, come il cottimo, in cui si guadagna a seconda di quanto si lavora. Un’altra questione è quella dell’elusione fiscale: queste piattaforme pagano pochissime tasse. Per il momento tutto questo è legale, ma nondimeno immorale: questo meccanismo crea un grave danno per la collettività tutta”.
Il ruolo della cooperazione
Nel mezzo di queste trasformazioni, esiste una piattaforma diversa dalle altre: la cooperativa, che nasce per rispondere a necessità di persone che si uniscono per trovare insieme soluzioni comuni. Ma qual è la differenza tra le nuove piattaforme digitali e le piattaforme cooperative? “La cooperazione nasce alla fine dell’Ottocento per condividere valore e porsi come modello alternativo a quello monopolista”, spiega Rita Ghedini, presidente di Legacoop Bologna. “È efficace quando riesce a svolgere questa funzione e quando consente l’effettiva condivisione di vantaggi. La riflessione sulla digitalizzazione in casa nostra è iniziata lentamente ed è stata connotata da alcune arretratezze generali che riguardano il nostro Paese. In alcuni ambiti le nostre imprese sono all’avanguardia, in altri c’è un gap di conoscenza e competenza da colmare: ecco perché dobbiamo investire nella formazione, per promuovere la conoscenza specialistica”.
Algoritmi, democrazia e cooperazione: modelli alternativi di digitalizzazione
La digitalizzazione porta con sé enormi potenzialità ma anche forti rischi, e non sempre le grandi piattaforme garantiscono il rispetto degli utenti e della comunità tutta. Nel panorama odierno, esistono modelli alternativi dove l’innovazione si combina con la sostenibilità e l’attenzione verso il singolo? Tre esperienze si raccontano:
- Cubbit
- FairBnb
- Riders Union Bologna
“Le tecnologie digitali impattano ogni settore produttivo, quindi potenzialmente ogni azienda che innova”, spiega Chiara Mancini dell’ufficio studi CGIL. “La tecnologia non ha però effetti predeterminati, tutto dipende da come viene utilizzata. Ecco perché il nostro slogan è ‘contrattare l’algoritmo’: nello sviluppo di questi processi, il coinvolgimento dei lavoratori deve essere una priorità”.
Cubbit
Cubbit è una tecnologia distribuita che punta a sostituire i data-center tradizionali, spazi che ospitano server, storage, gruppi di continuità e tutte le apparecchiature che consentono di accumulare dati, con grandissimi costi di infrastruttura, alti consumi di energia e un forte impatto sull’ambiente. Cubbit è il primo data-center che funziona senza server proprietari, in grado di distribuire, archiviare e processare i dati con una logica peer-to-peer estremamente efficiente e sicura. Spiega Alessandro Cillario, fondatore di Cubbit: “La nostra tecnologia ha costi operativi mille volte più bassi dei data-center tradizionali: i nostri dispositivi vengono collocati nelle case delle persone, che così hanno l’accesso gratuito al cloud. I dati vengono così spezzettati, cifrati e distribuiti sulla rete, con una maggior tutela della privacy”.
FairBnB
FairBnB è una piattaforma che permette di affittare stanze e appartamenti in modo sostenibile, superando alcune delle distorsioni della sharing economy. “Oggi si parla di capitalismo di piattaforma, soprattutto nel settore turistico”, commenta Damiano Avellino, fondatore di FairBnB. “Le piattaforme di turismo sono ormai diventate degli strumenti di speculazione, con gravi impatti sul mercato dell’affitto e sul diritto alla casa. Per evitare queste distorsioni, FairBnB limita gli host ad affittare al massimo una casa, e cerca di creare un impatto positivo sulla società: come le altre piattaforme tratteniamo il 15% delle commissioni, di la metà copre i costi di gestione, mentre l’altra metà va a un progetto sociale del territorio”.
Riders Union Bologna
A subire le conseguenze più amare della sharing economy ci sono i riders, i fattorini che lavorano per le grandi piattaforme di consegna cibo a domicilio. Il loro è spesso considerato un semplice “lavoretto”, secondo la logica della gig economy: “Vogliamo raggiungere una condizione degna e pienamente tutelata, come dovrebbe essere per tutti”, afferma Riccardo Mancuso di Riders Union Bologna, gruppo nato per tutelare questa categoria e chiedere maggiori diritti. “Per molti di noi, questo è il lavoro principale, non lo facciamo solo per arrotondare. La piattaforma vuole far passare il lavoro come un gioco: c’è una app, l’interfaccia è molto semplice, e più fai consegne più accumuli punti. Parliamo di gamification: lo sfruttamento assume le sembianze del divertimento. Bisognerebbe mettere invece al centro la dignità umana, perché avere persone che lavorano in queste condizioni è una sconfitta per tutta la comunità”.