Una vera e propria “palestra di imprenditorialità” progettata per avvicinare gli studenti universitari alla cultura d’impresa. Si chiama Icaro ed è un progetto ideato e promosso da Fondazione Golinelli in collaborazione con l’Università di Bologna, AlmaVicoo e Legacoop Bologna. L’obiettivo? Coinvolgere gli studenti per trovare risposte innovative a temi e sfide proposte dalle aziende coinvolte, in un’ottica di open innovation.
Il percorso ha una durata di cinque mesi e comprende sessioni immersive di formazione, visite aziendali, stimoli laterali, laboratori di design thinking e project work. Nell’edizione 2018/19 gli studenti, suddivisi in team interdisciplinari, hanno lavorato a stretto contatto con le imprese cooperative CAMST e CNS, che hanno messo sul tavolo le seguenti challenge:
CAMST
- Come utilizzare gli spazi di Tavolamica al di fuori della pausa pranzo?
- Quali servizi accessori di tipo no food possono essere offerti alla clientela di Tavolamica?
CNS
- Quale ambiente abitativo sociale può rispondere ai bisogni dell’anziano autosufficiente?
- Quale ambiente abitativo sociale può rispondere ai bisogni dell’anziano non autosufficiente?
“Il progetto Icaro si iscrive pienamente nei nostri valori cooperativi”, commenta Rita Ghedini, presidente di Legacoop Bologna. “Innanzitutto per l’importanza dell’educazione e la necessità di far crescere la cultura critica e la capacità collaborativa, e poi per l’idea di promuovere una nuova imprenditorialità cooperativa, trasmettendo il concetto di fare impresa alle nuove generazioni e promuovendo competitor. Questo genera benefici non solo per singoli, ma per la comunità tutta”.
La forza di Icaro sta nella multidisciplinarità dell’approccio e nello stimolo all’autoimprenditorialità, potenziando così negli studenti diverse soft skills: creatività, capacità di riconoscere le opportunità, perseveranza, autoefficacia, capacità di pianificazione e gestione e di fronteggiare incertezza e rischio.
“È una grande opportunità per gli studenti, di crescita personale e professionale”, afferma Antonio Danieli, direttore generale della Fondazione Golinelli. “Il nostro Paese può essere competitivo, e in certi casi ci riesce davvero. Come? Investendo su centri di ricerca e puntando sull’innovazione, sulla formazione, sull’educazione. È così che si creano nuove start up, che attirano nuovi talenti e creano possibilità di lavoro”.
Reteamica: come utilizzare gli spazi di Tavolamica al di fuori della pausa pranzo
Tavolamica è un luogo dove centinaia di persone si recano ogni giorno per consumare un pasto, un servizio di ristorazione pensato da Camst per piccole e medie imprese che non hanno una mensa interna. Ma come utilizzare quegli spazi al di fuori della pausa pranzo?
“Abbiamo raccolto più di 800 feedback degli utenti, e alla fine il bisogno più forte che abbiamo individuato tra le persone che frequentano Tavolamica è quello di rimanere aggiornati e fare rete”, raccontano i membri del team. “Le aziende sentono la necessità di confrontarsi tra di loro”.
Studiando il servizio di Tavolamica, è stato rilevato che secondo gli utenti i maggiori punti di forza sono prossimità e qualità. “Ci siamo chiesti: come possiamo sfruttare questi punti di forza? La nostra risposta è semplice: basta creare una comunità di imprese. Nasce così l’idea di Reteamica, ossia un gruppo di individui e aziende che condividano valori e creino un futuro insieme”.
Reteamica si svilupperà attraverso cicli di incontri che si terranno proprio negli spazi di Tavolamica: si andrà dalla presentazione delle aziende a focus group specifici, da interviste e tavoli di lavoro a corsi di formazione. In questo modo, le aziende avranno l’opportunità di conoscersi a vicenda e formare i propri dipendenti. Oltre a questo, si svolgeranno attività condivise di ricerca e sviluppo e metodi di finanziamento. “Crediamo fermamente in questo progetto come valido antidoto al nanismo delle imprese italiane e all’incapacità di plasmare i cambiamenti rapidissimi del nostro secolo”, concludono i ragazzi.
L’intervista a Federica Bettio, 23 anni, studentessa di Comunicazione pubblica e di impresa:
Pausamica: un nuovo servizio per coinvolgere la clientela di Tavolamica
Centinaia di persone consumano un pasto nei punti ristorazione Tavolamica di Camst, ma come vivono davvero la loro pausa pranzo? Quali servizi no food sarebbero necessari per migliorare il tempo speso in quegli spazi?
“Abbiamo iniziato facendo 350 interviste, e il 90% delle persone ci hanno detto che vorrebbero rilassarsi di più durante la pausa”, raccontano i membri del gruppo di lavoro. “Così abbiamo avuto l’idea di Pausamica, un servizio che propone una serie di attività da svolgere per staccare dal lavoro e svuotare la mente”.
Le quattro attività proposte da Pausamica sono il digital detox, ossia la possibilità di lasciare il cellulare nell’armadietto a ricaricarsi, per staccare dalla tecnologia per un po’; l’esperienza svago, un insieme di indovinelli, parole crociate e brevi giochi da tavolo; attività di lettura, con possibilità di consultare giornali, riviste o libri; e infine la musica, con lettori musicali a disposizione da usare con le proprie cuffie. Per ogni attività sarà prevista un’area specifica all’interno di Tavolamica, non delimitata in modo netto ma indicata attraverso totem e manifesti dislocati nello spazio.
Concludono gli studenti: “In questo modo si ampliano le modalità di interazione andando oltre il cibo. Il tutto consentirà una maggiore soddisfazione e fidelizzazione del cliente, che uscirà dalla pausa pranzo più rilassato e ricaricato”.
L’intervista a Valentina Marastoni, 21 anni, studentessa di Economia e marketing del sistema agroindustriale:
Il cohousing: una soluzione abitativa per rispondere ai bisogni dell’anziano autosufficiente
La popolazione italiana over 65 oggi rappresenta il 23% della popolazione totale, percentuale che nel 2050 raggiungerà il 32%. Eppure l’anzianità è ancora vista come un problema dalla nostra società.
“Noi abbiamo cercato di cambiare prospettiva”, spiegano i membri del team. “E se vedessimo l’anziano come una risorsa, anziché come un problema? Abbiamo deciso quindi di non lavorare su strutture pensate per ospitare anziani-problema, ma su ambienti che siano stimolanti per anziani-risorsa.
Come? Attraverso il cohousing”.
Il cohousing è un ambiente di co-residenzialità composto da alloggi privati e spazi e servizi in comune. In Italia questo tipo di soluzione abitativa non è ancora molto diffusa, soprattutto tra la popolazione anziana, che rappresenta solo il 7% degli abitanti di cohousing.
“Il cohousing in realtà potrebbe essere una risposta molto positiva per gli anziani autosufficienti che vogliono mantenere un loro spazio di autonomia”, affermano gli studenti. “L’ambiente deve però mantenere due caratteristiche fondamentali: autodeterminazione, che implica un’iniziativa iniziale spontanea, processi decisionali dal basso e presenza di un mediatore sociale per favorire i processi bottom-up, e apprezzamento del ruolo di ciascuno, con la presenza di un terapista occupazionale, che aiuti la persona a sviluppare i propri punti di forza, e di operatori socio-sanitari che lavorino in questa direzione”.
Ad esempio, un ex professore in pensione potrebbe tenere lezioni gratuite della sua materia, le signore anziane potrebbero essere protagoniste di un laboratorio di cucina, e così via. Questi corsi sarebbero aperti ai condomini ma anche ai cittadini tutti, per creare e tenere viva la connessione con il quartiere.
“L’abitare collaborativo mira a creare un senso di comunità in cui si riscopre il valore del buon vicinato. In questo il CNS, cooperativa con una rete molto radicata sul territorio, potrebbe dare un apporto fondamentale”, concludono i ragazzi.
L’intervista a Erica Gasperotti, studentessa di Direzione aziendale:
Un ecosistema aperto per i malati di Alzheimer: una soluzione per migliorare la vita degli anziani non autosufficienti
L’Alzheimer è una malattia che avrà un grosso impatto sociale in futuro: oggi nel mondo i malati di Alzheimer sono 47 milioni, quanto la popolazione di tutta la Spagna, e nel 2050 tale numero triplicherà. Come si può migliorare la vita di queste persone?
“Per prima cosa abbiamo cercato di individuare i bisogni principali”, raccontano gli studenti del gruppo. “Abbiamo riscontrato la necessità di non venire isolati e non soffrire di solitudine, poi c’è la voglia di sentirsi valorizzati e la sicurezza di poter gestire preventivamente momenti critici”.
Quale potrebbe essere allora la soluzione abitativa più adatta per le persone che soffrono di questa malattia? “La nostra proposta è quella di un ecosistema aperto e permeabile, in cui l’ambiente abitativo sia il telaio dove creare e sviluppare relazioni sociali con l’esterno”, spiegano i membri del team. “La struttura per accogliere i malati di Alzheimer deve avere allora certe caratteristiche: ospitare luoghi di aggregazione sociale come un bar aperto ai cittadini, spazi verdi, un centro diurno e servizi di welfare per i lavoratori della struttura. In più, ci potrebbero essere appartamenti satellite per famiglie e anziani con diversi gradi di autosufficienza”.
Oltre a questo, un centro di ricerca associato alla struttura potrebbe raccogliere dati riguardo il pattern linguistico e comportamentale dei malati di Alzheimer, ossia il modo in cui parlano e si relazionano, per comprenderlo e di conseguenza riuscire ad anticipare i tempi di diagnosi di questa malattia, tempi che attualmente si assestano sui due anni circa e che dunque potrebbero essere accorciati.
Anche il contesto urbano è importante: bisogna che sia vivace e a misura d’uomo, per contrastare l’isolamento della persona. “È stato dimostrato che le persone non autosufficienti si integrano bene anche con chi è autosufficiente, e così la loro condizione migliora, o quantomeno resta stabile. L’opportunità di vivere in uno spazio condiviso e permeabile è fondamentale”, concludono i ragazzi.
L’intervista a Dylan Tartarini, 23 anni, studente di Economia e politica economica: